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La leggenda scozzese, di Ngaio Marsh: recensione del Giallo Mondadori di maggio 2025

Scritto da: redazione
24 Aprile 2025
La tragedia scozzese
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Nel panorama sterminato del giallo classico anglosassone, La leggenda scozzese di Ngaio Marsh (titolo originale Light Thickens, 1982) occupa un posto singolare, non soltanto perché è l’ultimo romanzo della Regina del Delitto neozelandese, ma perché rappresenta un vero e proprio testamento letterario: un’opera che distilla in poco più di trecento pagine la passione dell’autrice per il teatro — in particolare per Shakespeare — e per l’enigma poliziesco a camera chiusa.

Nel riprendere la cornice del Dolphin Theatre e del regista Peregrine Jay già incontrati in Death at the Dolphin, Marsh intreccia la tradizione del whodunit con il fascino misterioso e superstizioso che da sempre aleggia attorno al “Scottish Play”. Il risultato è un romanzo che alterna atmosfere da thriller psicologico a squarci di meta-teatro, unendo, come un raffinato montaggio di scene, finzione scenica e cupa realtà delittuosa.

Un palcoscenico su cui incombe la malasorte

Fin dalle prime pagine, la scrittrice cala il lettore dietro le quinte delle prove di Macbeth e ne amplifica il senso d’inquietudine: battute dimenticate, scherzi macabri, oggetti di scena manomessi. La sinossi parla di spade occultate e di una maschera di Banquo dal ghigno sanguinante, ma ciò che colpisce è la cura con cui Marsh dipinge la psicologia di gruppo: gli attori oscillano fra l’entusiasmo professionale e la paura irrazionale che il destino si accanisca su chi osa pronunciare il nome della tragedia.

Questa tensione corale conferisce al romanzo un respiro quasi faulkneriano: ogni personaggio diventa un tassello di una coscienza collettiva, carica di superstizioni, rancori, ambizioni frustrate.

Lo stesso Peregrine Jay, razionale e brillante, si scopre a poco a poco vulnerabile; alle prese con sponsor capricciosi e con un cast irascibile, il regista fa da perfetto trait d’union fra l’universo artistico e quello investigativo, finché l’omicidio in diretta — un colpo di spada che sostituisce la finzione con la morte reale — richiama in scena l’ispettore Roderick Alleyn.

La scelta di far avvenire il delitto sotto gli occhi di un pubblico ignaro, con Alleyn seduto in platea, regala uno dei momenti più “cinematografici” dell’intera produzione marshiana, e insieme un intelligente rovesciamento del tòpos del corpo trovato a sipario chiuso.

L’indagine: logica deduttiva e cultura teatrale

Sul piano strettamente poliziesco, La leggenda scozzese segue il canone: elenco dei sospettati, interrogatori a tappeto, ricostruzione dei movimenti di scena e del dietro le quinte. Alleyn, qui ormai ispettore maturo, scava nelle rivalità artistiche, nei triangoli sentimentali e nelle piccole vendette che covano tra loggione e camerini.

L’intreccio è calibrato con la consueta eleganza, anche se qualche lettore abituato ai ritmi “brucia-pista” del thriller contemporaneo potrà percepire una certa lentezza nelle prime cento pagine, più interessate alla genesi del Macbeth che al mistero in sé. È però una lentezza funzionale: Marsh vuole che lo spettatore-lettore viva la magia — e la follia — di mettere in scena Shakespeare, prima di far deflagrare il crimine.

L’arma del delitto (una claymore autentica, con lama non smussata) e il modo in cui viene “sostituita” all’oggetto di scena testimoniano la meticolosità dell’autrice nell’intrecciare dettagli tecnici e simbolismo.

C’è un’ironia crudele nel fatto che la superstizione teatrale generi proprio l’evento tragico che avrebbe voluto evitare, e qui l’omaggio a Shakespeare è frontale: come nel Macbeth originale, l’ossessione del destino finisce per auto-avverarsi.

Temi e sottotesti

Uno degli aspetti più riusciti è la riflessione sul rapporto tra arte e violenza. Peregrine e gli attori cercano di “dominare” una materia — le parole di Shakespeare — che storicamente evoca sangue e tradimento; eppure, più cercano di controllarla, più emergono pulsioni incontrollate.

Da buona regista, Marsh usa l’ambientazione teatrale per parlare di maschere che rivelano più di quanto nascondano: il trucco, le luci, le battute imparate a memoria sono stratagemmi per non guardare in faccia i propri demoni. Quando la recita si macchia di reale crudeltà, la cortina fra persona e personaggio si lacera in modo irreparabile.

Interessante anche la presenza di un attore maori, cui l’autrice, neozelandese, affida brevi ma significative notazioni sulla distanza culturale; una scelta che alleggerisce la claustrofobia “britannica” del cast e offre un controcanto di ironia e buon senso.

Punti di forza e debolezza

Fra i meriti del romanzo spiccano:

  • L’atmosfera: la combinazione di superstizione e tensione artistica è resa con pennellate vivide, degne di un backstage hollywoodiano degli anni d’oro. 
  • Il personaggio di Alleyn: invecchiato con grazia, più riflessivo che mai, rimane uno dei detective meglio caratterizzati dell’epoca d’oro; e il suo scambio finale con Peregrine aggiunge una nota di malinconia rara nel genere.
  • La scrittura: elegante, mai ridondante, capace di citazioni shakespeariane senza pedanteria e di dialoghi arguti che ricordano gli scherzi tra attori vissuti realmente dalla stessa Marsh, regista di professione.

Sul versante opposto si possono rilevare:

  • Un intreccio non impossibile da decifrare: lettori esperti potrebbero intuire l’identità dell’assassino grazie a un paio di dettagli forse sottolineati con troppa enfasi.
  • Un avvio dilatato: chi cerca un cold-open adrenalinico potrebbe spazientirsi durante la lunga descrizione delle prove.

Giudizio complessivo

La leggenda scozzese è un giallo che richiede di essere assaporato come si farebbe con una prima teatrale: accomodandosi in platea, lasciandosi avvolgere dall’odore di polvere di scena, godendo dei contrasti di luce e ombra che Marsh orchestra con la perizia di un direttore luci.

Non siamo di fronte al capolavoro logico-enigmistico di Crocefisso in rosso, né all’avventura più esotica di Omicidio a passo di danza, ma questo romanzo regala un’esperienza immersiva, quasi sinestetica, che pochi autori polizieschi riescono a eguagliare.

Per chi ama il teatro — e non ha paura di pronunciare la parola “Macbeth” a voce alta — è una lettura imprescindibile. Per chi vuole scoprire (o riscoprire) la produzione di Ngaio Marsh, rappresenta un commiato affettuoso: l’ultima chiamata in scena di una scrittrice che ha saputo rendere il delitto una forma d’arte e, insieme, denunciare il lato oscuro di ogni palcoscenico.

Voto: 8/10. Il sipario cala, ma le luci restano accese abbastanza a lungo da farci riflettere sul potere (e sul pericolo) della finzione.

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