Quando si pensa all’antica Lacedemone, l’immaginario collettivo si riempie di mantelli scarlatti, scudi lucenti e battaglie all’ultimo sangue; un luogo di disciplina ferrea, privo di letteratura e bellezza, in netta antitesi con la raffinata Atene.
È proprio contro questa narrazione unilaterale che si scaglia Sparta, di Laura Pepe, docente di diritto greco e romano all’Università degli Studi di Milano. Pubblicato da Laterza il 15 ottobre 2024, il volume conta 256 pagine e rientra nella collana «I Robinson. Letture».
Fin dalle prime pagine l’autrice chiarisce la sua sfida: far parlare Sparta con una voce propria, sganciandola dal coro ateniese che per secoli ha monopolizzato la memoria storica. Pepe ricorda, infatti, che non possediamo un Tucidide lacedemone, né un’acropoli monumentale da visitare.
Eppure, dietro l’ombra di ciò che la polìs non ha lasciato in eredità, si cela un’esperienza civile e culturale complessa, «amabile e divina», per usare l’epiteto omerico che l’autrice recupera con finezza filologica. Il nucleo del suo saggio è proprio il confronto serrato con le fonti – letterarie, epigrafiche, archeologiche – filtrate da una domanda essenziale: che cosa resta di Sparta quando si filtrano gli stereotipi?
Il libro è suddiviso in capitoli tematici che ripercorrono i nodi più controversi della storiografia spartana. Pepe esamina, con approccio storico-giuridico, l’educazione dei ragazzi (la celebre agōgē), la presunta eliminazione dei neonati malformati, il ruolo delle donne, la struttura politica dei due re e degli ephóroi, l’economia fondata sugli iloti e persino la produzione culturale spesso ignorata.
Ne esce un quadro sfaccettato, in cui l’ordinamento spartano appare meno monolitico di quanto si pensi: la temuta selezione eugenetica dei neonati, evidenzia l’autrice, non è confermata da fonti concordi; l’addestramento militare risulta simile, per durezza e finalità, a quello praticato in altre città greche; la vita quotidiana includeva musica, gare di danza, simposi sobri ma non per questo meno vivaci.
Uno dei meriti maggiori dell’opera è la ricollocazione delle donne spartane al centro della narrazione. Pepe mostra come la relativa autonomia femminile – diritto a possedere e gestire terre, pratica di attività atletiche, leggera presenza nei banchetti – non fosse un’anomalia folkloristica, ma il prodotto di un equilibrio sociale che necessitava del loro ruolo.
Senza cadere in facili idealizzazioni, l’autrice riesce a spiegare perché le Spartiate fossero in grado di pronunciare frasi fulminanti, entrate nel mito, al pari dei loro mariti guerrieri (celebre il “torna con lo scudo o sopra di esso”). Questo capitolo, corredato da numerose citazioni di Plutarco e Senofonte, è anche un sottile invito a rileggere l’emancipazione antica con categorie meno rigide di quelle moderne.
Sul piano metodologico, Pepe adotta un registro ibrido: linguaggio scientifico ma accessibilità divulgativa. Ogni sezione si apre con un aneddoto, talvolta con un frammento poetico, e si chiude con sintetiche conclusioni che guidano il lettore non specialista senza sacrificare la complessità della questione. Questa «narrativizzazione» è uno dei punti di forza riconosciuti anche da varie recensioni online, che lodano la capacità di coniugare passione militante e rigore accademico.
Naturalmente, un’opera che intenda “demitizzare” corre il rischio opposto di sbilanciare il pendolo verso l’apologia. Il volume Sparta, di laura Pepe, sfugge in gran parte a questa trappola, ma in alcuni passaggi l’esaltazione dell’originalità spartana – per esempio la scelta di convivere con la penuria di moneta o l’ostinata fedeltà a istituzioni arcaiche – lascia intravedere una certa fascinazione romantica.
Inoltre, il lettore esperto potrà sentire la mancanza di un capitolo dedicato in modo sistematico all’archeologia laconica più recente: gli scavi a Menelaion e Amyklai, citati solo di sfuggita, avrebbero potuto fornire ulteriore sostanza al dialogo fra materiale e testuale. Ciò non diminuisce però la validità dell’analisi, anzi evidenzia quanto la ricerca su Sparta sia ancora in divenire.
Un altro nodo critico riguarda l’estensione comparativa. Pepe menziona, ma solo a tratti, il dibattito internazionale animato da studiosi come Paul Cartledge o Anton Powell. Un confronto più serrato avrebbe arricchito ulteriormente il volume, soprattutto per chi vuole capire a che punto si trova la spartologia contemporanea. D’altra parte, la scelta di rivolgersi a un pubblico italiano non specialista spiega la volontà di concentrarsi sulle fonti primarie più che sulle querelle storiografiche.
Lo stile argomentativo è scorrevole ed elegante. Le digressioni filologiche e giuridiche non sono mai fini a se stesse: servono a illuminare la logica interna della società laconica. Particolarmente riusciti i box di approfondimento sparsi nel testo – quasi piccole “pause di riflessione” – che spiegano termini tecnici (syssitia, krypteia, gerousia) o introducono curiosità (il presunto divieto spartano di coniare monete d’oro, la moda dei versi corali femminili attribuiti ad Alcman).
Ne risulta un saggio che si può leggere in sequenza o consultare a capitoli, soluzione felice sia per lo studente sia per l’appassionato di cultura classica.
Sparta di Laura Pepe offre un contributo prezioso alla divulgazione storica italiana: smonta stereotipi stratificati, restituisce complessità a un modello politico e sociale spesso ridotto a caricatura, e lo fa con una prosa limpida, sostenuta da rigorosa documentazione. L’opera costituisce un punto di riferimento aggiornato e stimolante.
Chiunque voglia comprendere perché la “città dei due re” continui a esercitare un fascino potentissimo, troverà in queste pagine una guida autorevole: un invito a guardare oltre l’elmo di Leonida, alla scoperta di un mondo che, seppur privo di un Partenone da fotografare, ha lasciato un’impronta profonda nella storia politica, militare e culturale dell’Occidente.
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